“Autoritratto involontario”
di Giovanna Calvenzi
Il ritratto fotografico nasce quasi contemporaneamente alla fotografia. E da subito è un genere che riscuote un grandissimo successo: il nuovo mezzo narrativo, molto democraticamente, consente ad un pubblico sempre più vasto di ottenere a costi contenuti un’immagine di se e di tramandarla alle future generazioni. A partire dal 1850 studi fotografici attrezzati con sale posa, abiti e decori a disposizione dei clienti nascono un po’ ovunque. La tecnica è lenta, le persone vengono messe in posa con gli abiti migliori e i margini interpretativi concessi al fotografo sono molto ridotti. Il ritratto fotografico nasce quindi con stretti legami con la memoria e l’invenzione di sé, con il desiderio di proporsi nel migliore dei modi.
Negli anni successivi l’evoluzione della tecnica e del linguaggio svincoleranno ii fotografi e i soggetti dall’obbligo dell’immobilità e della ristretta gamma delle possibilità narrative, ma permane sempre l’esigenza di un dialogo creativo tra i due protagonisti dell’azione fotografica.
Rimangono quindi immutati il desiderio di essere rappresentati in modo gratificante, da un lato, e il tentativo di cogliere in un unico momento non solo l’aspetto fisico ma anche la personalità, dall’altro. Un buon ritrattista doveva, e deve, trovare un equilibrio tra le sue capacità e ntenzioni narrative e le aspettative del suo soggetto.
Negli ultimi decenni gli studi specializzati nel ritratto sono scomparsi. La stampa periodica è diventata in pratica il committente di riferimento dei ritratti che i professionisti realizzano. L’evoluzione del” genere” , quindi, avviene in sintonia con le tendenze e le mode della comunicazione giornamistica.
Se i giornali propongono quello che il pubblico desidera vedersi proporre oppure impongono quello che vogliono imporre, è una querelle da sempre irrisolta che tuttavia ha condizionato la pratica del ritratto fotografico. La gente comune difficilmente fa ricorso a professionisti, personaggi e personalità vengono ritratti secondo stereotipi che si suppone siano quelli che il pubblico desidera veder confernamati.
Paolo Ranzani è ritrattista. Per la sua serie “99 per Amnesty” ha fotografato 99 personaggi celebri.
Per professione Ranzani dovrebbe quindi operare all’interno di una cultura imperante e imperativa.
Eppure la sequenza delle sue immagini non risponde a nessuna delle aspettative alle quali siamo stati educati. Se non fosse che nessuno crede più alla veridicità della fotografia, si potrebbe affermare che i suoi ritratti sono fotografie “vere”. Con gentilezza e rispetto Ranzani entra nell’intimità delle persone, le coglie nella semplicità quotidiana, ne sottolinea bellezza, intelligenza, ironia, stanchezza, allegria. Sembra svelare lati inediti della personalità dei suoi soggetti, notissimi e, nei suoi ritratti, spesso imprevedibili.
Ma la fotografia è strumento pericoloso: nella sequenza che scandisce la selezione, immagine dopo immagine, si delinea una sorta di autoritratto involontario che racconta certamente la qualità creativa dell’operare di Paolo Ranzani ma che dice anche molto sulle qualità umane necessarie a ottenere il livello di confidenza e fiducia che i suoi ritratti mettono in scena.
Con leggerezza padroneggia tutte le possibilità espressive del ritratto contemporaneo.
Non si pone il problema di raccontare in una sola immagine la personalità di chi sta davanti al suo obiettivo ma coglie fisionomie e atmosfere, gesti e spazi, e li trasforma nell’emozione della scoperta e della visione.
Giovanna Calvenzi
“ECCE FEMINA”
Aveva ragione Michelangelo Antonioni
Sfogliando questo splendido album, questa circumnavigazione nell’universo femminile, vengono a galla nella mente dell’osservatore molti pensieri, non tutti necessariamente chiari e limpidi, ma questo è il fascino dell’opera d’arte, la sua capacità di smuovere acque profonde. Il primo pensiero è che aveva ragione Michelangelo Antonioni quando metteva in scena in Blow Up il rapporto tra fotografo e modella come l’allegoria di un rapporto sessuale; come possono testimoniare i protagonisti, al termine di una seduta fotografica, entrambi, fotografo e modella, sono esausti, come dopo un’estenuante battaglia amorosa. Possiamo perciò affermare che ciascuna di queste fotografie di Paolo Ranzani non è solo una dichiarazione d’amore al soggetto fotografato ma mette in scena una vera e propria storia d’amore, sia pure sublimata, tra lui e la modella.
Guardate queste donne, guardatele bene negli occhi, fate uno sforzo anche se il vostro sguardo tende a scivolare su altre parti. Noterete dal loro sguardo che loro amano farsi fotografare, lo desiderano, lo sognano, lo bramano, in quel momento è lo scopo supremo della loro vita, che esistono nella misura in cui sono sotto l’occhio di un obiettivo. Un obiettivo complice, amoroso, che ne esalta la femminilità e il glamour.
Anche quelle rare volte in cui il volto della donna è fuori dall’inquadratura, il frammento racconta la totalità di quel corpo.
Questo libro è anche, come è giusto che sia, un catalogo e un’esemplificazione della bravura tecnica e della raffinata alchimia figurativa di un fotografo che ha raggiunto la piena maturità espressiva. Ad altri più esperti di me lascio il compito di dilungarsi sugli aspetti tecnici.
Preferisco soffermarmi sui contenuti, dire che per me ogni fotografia qui riprodotta racconta una storia. Anzi,più che una storia un sogno, una fantasticheria .Perché la forza irresistibile della seduzione, così ben rappresentata in queste immagini, a me, come ad altri tanti uomini, nella vita reale mette paura. Mai oserei farmi vedere in giro con una di quelle tigri reali. Sono più tranquillo se abitano lo spazio del sogno, come quella donna selvaggia accucciata sul pavimento, le palme delle mani a terra, i lunghi capelli neri e inanellati, che mi guarda fisso, pronta a saltarmi addosso e sbranarmi.
O la ragazza in cima alla scala che porta alle stanze di sopra, che indossa calze nere fino a metà coscia, con i ghirigori della balaustra che nascondono la sua nudità, il volto reclinato su una spalla in paziente attesa. Aspetterà me per caso? Spero proprio di no, nel caso confido nell’uscita di sicurezza. Il volto e il capo della donna, quando sono così ben rappresentati, sono in grado di veicolare qualunque messaggio. Se c’è ancora qualcuno che si stupisce per il fatto che la pubblicità usa l’immagine femminile per qualunque prodotto e i periodici mettono la donna in copertina per alzare la tiratura, sfogli quest’album prezioso e ne capirà il perché.
Bruno Gambarotta
vita, carcere, teatro